Identità

Mia figlia aveva 10 giorni quando ho fatto questo sogno:

“Sono al mare, attendo che i miei amici tornino da una gita in barca. Sono gli amici del liceo, alcuni dei quali in realtà non vedo da molti anni. Andiamo a bere qualcosa, improvvisamente sento come se avessi della ghiaia in bocca, faccio scorrere la lingua e sento che tutti i denti della parte destra si stanno sgretolando, come se fossero fatti di pietra friabile. Vado via stringendo una mano sulla bocca e presto lo scenario cambia, mi trovo nella città in cui sono nata e cresciuta e dove non vivo più da molti anni. Telefono a mia madre, le dico di chiamare immediatamente il dentista e di prendere un appuntamento perché sto perdendo i denti, lei tergiversa e dice che prima o poi chiamerà, e quando sto per urlarle che la situazione è grave, mi vedo riflessa nel plexiglass di una vecchia cabina telefonica: l’occhio destro si sta come squagliando, è deformato e arrivato ormai a mezza guancia, come cera sciolta. Bisbiglio a mia madre che non fa niente, di lasciar perdere il dentista, chiudo il telefono e resto a guardare l’immagine di mezza me che si disfa come neve al sole.”

Mi sono svegliata di soprassalto, con la bambina e il mio compagno che dormivano accanto a me.
Sono rimasta a riflettere, nel silenzio della stanza, sul significato di quel sogno e su quello che stavo vivendo.
Ho avuto un parto bellissimo. Doloroso oltre ogni mia aspettativa, spaventoso come solo un viaggio così può essere, ma dolce, rispettato, senza problemi, dove volevo e con chi volevo. Il post parto è stato protetto e nutrito da una folta tribù che mi ha coccolata permettendomi di riposare e prendermi cura della bambina serenamente. Non ho avuto il baby blues, ho pianto solo una volta (quando ho sentito mia madre dopo il parto), mi sono innamorata immediatamente di mia figlia, di quell’Amore di cui tanto avevo letto, quello travolgente totale e assoluto del nientesaràpiùcomeprima.

Eppure.
Eppure ho sognato di perdere mezza faccia.
Eppure metà di me si è sciolta, disgregata, spezzata, squagliata, disfatta.
Mi aspettavo il baby blues, so cosa sia la depressione post parto, conosco moltissime donne che hanno imparato ad amare i loro bambini lentamente, giorno dopo giorno.
Di tutte queste cose ho letto, ho sentito parlare, con queste cose ho avuto a che fare come amica e come doula.
Ma della sensazione inesorabile di disgregazione del sé, di questo non mi aveva parlato nessuno.
Di quella zona buia in cui cammini quando non sei più quella che eri e non sei ancora quella che sarai, di questo non sapevo niente.
Certo, sapevo che per un po’ non mi sarei buttata sul divano a bere una birra e guardare la mia serie preferita, che non sarei andata al cinema a vedere il film che avevo tanto aspettato o che fare un aperitivo all’ultimo momento sarebbe stato difficile, ma non è di questo che parlo.
Non parlo del Fare, ma dell’Essere. Essere Madre. Qualcosa che davo per scontato, e che scontato in un certo senso lo è per chi ha sempre avuto un forte istinto materno e un grande desiderio di diventarlo. Ma c’è una parte -sottile, ineffabile eppure enorme- difficile da definire, che non avevo considerato, di cui non avevo sentito parlare nei tanti cerchi di madri a cui ho partecipato.
Ha a che fare con l’Identità. C’è una parte di te che muore quando diventi madre, e una parte che nasce. E in mezzo c’è una zona crepuscolare dove questo nuovo Essere si definisce, con il tempo necessario, che immagino vari da donna a donna.
Capisco perché non me ne aveva mai parlato nessuno, perché è difficile trovare le parole per descrivere la sensazione di stare sopra un abisso che si prova quando si intuisce l’entità del passaggio che si sta facendo. E a volte questa sensazione è soffocata da mille altre incombenze più concrete e urgenti, così scivola via, si definisce vagamente “malessere” o “smarrimento” ma non si indaga davvero a fondo, come invece credo che meriti.
Metà della mia faccia si è disfatta. La mia immagine sociale, ma anche quella che io stessa avevo di me, è diventata ghiaia, cera fusa.
A 10 giorni dalla mia rinascita come madre, il mio subconscio mi ha urlato di guardare quello che mi stava accadendo, di affrontarlo, di coglierne l’occasione preziosissima.
Ho capito che la mia risposta -personalissima e senza pretese di essere universale- risiede in una parola abusata e banale: Amore. Questo amore che porta con sé la gioia e il terrore del darsi totalmente, il lasciare quello spazio che era solo mio per un nuovo spazio nostro, mio e della bambina che da me dipendeva, l’abbandono nell’indolenza di giornate il cui ritmo era battuto dal cuore di un’altra persona. E ho capito che quanto prima avrei accettato tutto questo e lasciato andare gli ormeggi stretti del mio vecchio essere per abbracciare totalmente questa nuova identità, tanto prima sarei stata bene, e la parte destra del mio viso avrebbe ripreso a sorridere di occhi e denti più lucenti.
Spero, quando incontrerò la prossima madre, di avere la capacità di starle accanto e di trovare insieme un nome per questo passaggio, per renderlo il più dolce, sereno e profondo possibile.
Perché forse essere una doula è anche questo, è esserci quando una madre trova un nome ad una nuova identità e stringerle le mani quando lascia i suoi ormeggi. Perché veleggiare insieme è più allegro e sicuro, sempre.

Elisabetta Balìa