Essere donna, madre, doula a Souda

Sono passati 15 giorni da quando il mio aereo è atterrato a Milano, proveniente da Chios: sembrano passate due ore e una vita. Proprio come mentre eravamo li, a Chios, nel campo profughi di Souda, che ci sembrava di essere appena arrivate eppure essere li’ da sempre.

Perché la vita dei rifugiati va veloce e lentissima. Velocemente accadeva che le cose mutavano, le persone venivano spostate di campo, cambiavano tenda e abitazione, venivano mandate ad Atene. Eppure lentissima, tutti i giorni uguali, da tre o quattro mesi incastrati in un campo profughi a vivere in 15 in un container senza sapere cosa ne sarà di loro.

Essere madre in questa situazione è complicato : è davvero essere i più fragili tra i più deboli, come dice lo slogan della ONG per cui abbiamo lavorato. Essere madre a Souda, come a Idomeni immagino o a Kitiza significa dover fare i conti con la scarsità di cibo, di acqua, di vestiti. Significa che un giorno possono dar da mangiare ad un bambino appena svezzato la verdura fresca e il giorno dopo nulla. Alcune madri si comprano qualcosa, se hanno qualche soldo, ma i soldi non durano per sempre.
Essere madre a Souda significa che tuo marito non ha mai visto nascere tua figlia, perché quando è partito eri ancora incinta, e da allora non vi siete più incontrati.
Essere madre a Souda significa avere 17 anni, una bimba di 5 mesi e viaggiare completamente da soli : avere la gioia e la spensieratezza dell’adolescenza e la capacità di essere la sola responsabile di due vite.
Essere madre a Souda significa essere donne bellissime con neonati bellissimi, e sorridere radiose nonostante il non avere nulla.
Essere madre e donne a Souda significa avere 10 figli con se, averne 4 lasciati in Siria sotto le bombe, non averne nessuno ed essere sole.
Essere madre a Souda significa non avere le scarpe per i propri figli. E scusarsi se si chiede questo aiuto con insistenza.
Essere madre a Souda significa decidere di non accettare abiti usati per se e per il proprio figlio, per provare a tenere ancora un pezzetto di dignità.
Essere madre a Souda significa donare l’unico cappello del proprio figlio al vedere una bambina, occidentale e con la sua mamma operatrice umanitaria, senza cappello sotto il sole.
Essere madre a Souda significa vivere nella confusione di mille domande, poche certezze, e qualche faccia amica.

Essere doule, a Souda, significa combattere contro chili di latte in polvere. Non perché il latte in polvere sia il male assoluto, ma in quella situazione, dove oggi sappiamo dove sono i rifugiati e domani no, potrebbero essere in viaggio a piedi verso il nord europa, quel latte è la cosa meno sicura che c’è. Essere doule significa mettere in pratica tutto quello che si è imparato in anni in Italia, tutto concentrato in pochi giorni e tante madri. Essere doule a Souda significa festeggiare una gravidanza gemellare seduti su una lurida coperta di pile, come se fossimo a tavola tra amici. Essere doule a Souda significa accogliere storie che si piazzano proprio li, tra lo stomaco e il cuore. Essere doule significa stringere legami, sperare di poter tornare a Souda e di non incontrare più nessuno perché sono tutte in Europa o dove vorrebbero essere.

Essere donna e doula a Souda per me ha significato non fermarmi qui. Perché ciò’ che ho visto, quello che ho conosciuto, non si può’ raccontare con delle parole o delle foto.

Essere doula a Souda mi ha fatto capire che essere madre è in un campo profughi comunque un segno, gioioso e inconfondibile, della vita che continua. Dell’umanità, che si assomiglia tutta e che non può’ essere dimenticata e lasciata marcire in un campo profughi su un isola, lungo i confini chiusi,  dentro una barca che affonda nel mare mediterraneo.

Sara Toson